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Coscienza e percezione del rischio

Di Christophe Brunelière – da Vol à Voile n.105/2002

Traduzione di Flavio Formosa

L’analisi di numerosi incidenti dimostra che i piloti non hanno sempre una corretta percezione dei rischi ai quali si espongono. Appare chiaro che certi tratti caratteriali o certe situazioni possono indurre a sottovalutare il pericolo. Questa tendenza, oltre all’aspetto psicologico, può avere tre cause principali : un lungo periodo senza incidenti, la fascinazione di un obiettivo, e la sindrome del “seguire il leader”.

L’esame degli incidenti di seguito trattati non ha la pretesa di fornirne la spiegazione, bensì di aiutare a comprendere certi comportamenti individuali ai quali siamo tutti, in diversa misura, esposti. Esserne coscienti costituisce un passo in avanti verso la sicurezza.

Il gusto del rischio

Esiste un tratto della natura umana che ci spinge talvolta a cercare il rischio per bisogno di vincere la paura o di dimostrare il nostro coraggio. E’ una tendenza che riaffiora dal remoto. Perché l’alpinista si mette volontariamente in situazioni in cui rischia la vita? Un movimento errato, una pietra che si stacca, un particolare difettoso nell’attrezzatura possono portarlo a ferirsi gravemente o ad uccidersi. Perché altri diventano toreri, mettendo il loro coraggio e la loro vita di fronte ad un toro infuriato? In poche parole, perché è stata inventata la roulette russa?

Il rischio può essere eccitante, affascinante. E’ un sottile gioco con la paura. Anche a coloro che non se la sentono di mettere a repentaglio la propria vita piace guardare altri che lo fanno. Gli sport pericolosi hanno sempre una vasta audience.

E gli sport pericolosi non sono i soli a fondarsi sul gusto del rischio. I giochi d’azzardo fanno appello esattamente agli stessi principi che sono in noi, con l’unica differenza che il denaro si sostituisce alla vita. E’ un altro modo di raggiungere l’eccitazione del rischio senza dover mettere in gioco la propria vita.

D’altro canto non si può negare che il gusto del rischio abbia i suoi lati positivi. Senza la volontà di rischiare, l’uomo non avrebbe mai potuto realizzare i progressi di cui siamo testimoni, né avrebbe potuto sperimentare gli straordinari successi che ha ottenuto. Il 21 maggio 1927 Charles Lindbergh è atterrato a Parigi con il suo Spirit of St. Louis, realizzando la prima trasvolata atlantica. Il rischio affrontato è stato enorme : basti pensare a quelli che l’hanno preceduto (da notare che correva per vincere i dollari del premio Orteig, come Louis Blériot quando nel 1909 ha trasvolato la manica vincendo il premio del Daily Mail. Questa considerazione economica toglie forse un po’ di romanticismo all’impresa, ma nulla al coraggio…)

Il 29 maggio 1953 Edmund Hillary e Tensing Norgay sono i primi uomini a raggiungere la vetta dell’ Everest. Il 20 Luglio 1969, Armstrong e Aldrin lasciano le loro impronte sul suolo lunare. Nessuna di queste imprese sarebbe stata realizzata senza un alto livello di rischio iniziale.

Tutto ciò potrebbe far pensare che il rischio faccia parte della nostra vita quotidiana. Sembra anzi che ne abbiamo bisogno, dal momento che talvolta lo cerchiamo volontariamente. Ma il modo in cui lo percepiamo e lo valutiamo in quei momenti è variabile, in quanto può essere influenzato dalla nostra situazione emotiva.

Se, per esempio, ci troviamo al volante di un’auto, e decidiamo di sorpassare in condizioni di visibilità insufficiente, siamo sicuramente pronti ad accettarne i rischi. Se fossimo viceversa nel sedile del passeggero, e quindi meno influenti sul corso degli avvenimenti, potremmo giustamente stimare che la situazione è più critica di quanto pensa il guidatore.

Alcuni studi hanno permesso di mettere in relazione il grado di accettazione del rischio con la possibilità di controllo della situazione posseduta da un individuo. L’alpinista accetta un alto grado di rischio perché ha scelto di correrlo lui stesso. Di contro, il passeggero di un’automobile o di un aeroplano accetta malvolentieri che altri si assumano dei rischi al suo posto. Sembra dunque che il livello di rischio che siamo disposti ad accettare in una situazione dipenda direttamente dalla nostra possibilità di influire sugli eventi.

La percezione del rischio

Non è però solo il livello di controllo sulla situazione che influenza il nostro atteggiamento di fronte al rischio. Come abbiamo visto prima, esiste un altro importante parametro : il nostro carattere. Alcuni temono o fuggono il rischio, altri accettano la sfida. Ogni attività aviatoria comporta alla base un elemento di pericolo, e noi come piloti dobbiamo essere pronti ad accettarlo.

Non sorprende il constatare che alcuni piloti possono mostrare un certo gusto del rischio, o la propensione a trovarsi in situazioni critiche. Bisogna essere onesti : possiamo provare piacere a sperimentare l’eccitazione del rischio, anche se non siamo disposti ad ammetterlo. Questa caratteristica, forse anche una di quelle che ci ha condotto verso lo sport del volo, può avere delle conseguenze estremamente negative sull’attività aeronautica.

Le differenze tra la nostra inclinazione naturale e le esigenze del pilotaggio, o della situazione, ci devono essere sempre ben impresse in mente. E’ vero che la temerarietà giovanile tende a diminuire con l’età, ma resta un fatto che quella dei piloti è una categoria che possiede un gusto del rischio al di sopra della media della popolazione. E’ per questo che dobbiamo costantemente sorvegliare e riesaminare il nostro atteggiamento, e capire soprattutto che possiamo essere portati a sottovalutare grossolanamente il rischio insito in certe situazioni.

Quali sono le circostanze favorevoli a questo atteggiamento di sottostima ? ne esistono almeno tre :

un lungo periodo senza incidenti : più a lungo le cose vanno bene, senza incidenti, e meno diveniamo coscienti dei pericoli connessi con la nostra attività. Questo atteggiamento di compiacenza, dovuto all’erosione della nostra coscienza del rischio, tocca gli individui, ma può arrivare a contaminare interi club. E’ un fenomeno del tutto naturale che possiamo constatare in noi stessi ed intorno a noi. Una persona che è stata direttamente coinvolta in un incidente, o che ne è stata testimone, tende ad essere particolarmente attenta nel periodo che segue. Ma con il tempo, l’attenzione scema nuovamente. Questo significa che più tempo è trascorso dall’ultimo incidente, più è difficile restare in guardia.

Se, per combinazione delle proprie capacità e di un poco di fortuna, una persona riesce ad evitare qualunque tipo di incidente in tutta la sua carriera (volovelistica o professionale), può non essere mai stata confrontata con una situazione di rischio elevato, e questo può influire negativamente sul suo comportamento in caso di reale pericolo.

Ascoltiamo cosa diceva il comandante di marina E.J.Smith, intervistato nel 1907: “Quando mi chiedono di descrivere il meglio possibile la mia esperienza di quasi quarant’anni di mare, posso solo dire che non è mai successo nulla. Naturalmente ci sono state tempeste, temporali , nebbie e altre cose simili, ma nella mia esperienza non sono mai stato coinvolto in un incidente degno di questo nome. Non ho mai visto una nave in difficoltà sulle rotte che ho percorso, non ho mai visto un naufragio né sono mai stato coinvolto in uno io stesso, e neppure mi sono mai ritrovato in una situazione che minacciasse di trasformarsi in un disastro…”

Il 14 Aprile 1912, dopo aver drammaticamente sottovalutato una situazione di grande rischio, il comandante Smith affondò con la sua nave. Era il Titanic.

In campo aeronautico esistono svariati esempi di lunghe carriere senza incidenti terminate con una catastrofe.

Il 27 novembre 1993, alle 22:25, un Boeing 747 di una compagnia sudamericana decolla da Parigi alla volta di Madrid con 192 persone a bordo. Il comandante, 58 anni, ha all’attivo più di 23000 ore di volo. Nei quattro anni precedenti ha percorso la tappa Parigi-Madrid 33 volte, e il suo libretto di volo indica 25 atterraggi a Madrid nei 12 mesi precedenti. Difficile immaginare una persona più esperta per questo volo. Le condizioni meteo sono normali. Alle 23:46 il volo inizia la discesa, e alle 23:56 riceve l’autorizzazione per l’atterraggio sulla pista 33 a Barajas. Due minuti più tardi viene commesso un errore importante in cabina : durante il briefing d’avvicinamento, l’altitudine di transito sull’ultimo radio-marker viene annunciata dal copilota in 2380 piedi invece di 3280. Questa differenza di 900 piedi non viene rilevata dal comandante, benché l’altitudine notevole dell’aeroporto, 2000 piedi, sia appena stata ricordata. Poco prima del marker il comandante decide di abbreviare la traiettoria e scendere a 4000 piedi. Non avrebbe dovuto farlo prima di trovarsi in linea con l’asse pista. Questa presa di rischio fu accettata senza discussione né commenti.

L’aereo non è più su una traiettoria protetta, si trova ad est dell’asse ILS e a poche decine di metri dalle colline. A causa della bassa quota, suona l’allarme di prossimità del suolo. A questo punto, l’equipaggio avrebbe dovuto rendersi immediatamente conto del pericolo. Ma l’allarme chiaro ed evidente non fu percepito che da orecchie totalmente sorde a qualunque sensazione di pericolo. Il comandante disse semplicemente “OK, OK” e proseguì la traiettoria senza alcuna correzione immediata. Cinque secondi più tardi, il comandante disse ancora “OK”, e ridusse il tasso di discesa, ma troppo tardi.

Il Boeing 747 urtò il suolo a tre riprese. Le ricerche tra i rottami sparsi su di un’area molto vasta permisero il ritrovamento di 181 corpi e 11 sopravvissuti, tra i quali nessun membro dell’equipaggio.

Una fine realmente incredibile per una lunga carriera e 23000 ore di volo senza incidenti.

Non succede solo agli altri.

Lontano dall’eco delle catastrofi di portata internazionale, il microcosmo del volo a vela abbonda purtroppo di esempi. E’ tardi, il nostro pilota, competitore di alto livello, rientra da un lungo volo. Resta un passo montano da superare, e il tema è realizzato. L’unico fastidio è che il passo è chiuso da nubi stratificate generate dal vento.

Si presenta un dilemma crudele: atterrare sull’aviosuperficie al di qua del passo, o tentare di forare le nubi per passare ? La prima opzione è sicura, ma il recupero rischia di essere lungo, e poi in questo caso il tema non si chiude.

Il nostro pilota conosce perfettamente la zona, e non fa un atterraggio fuoricampo da molto tempo. Sceglie la seconda opzione, più rischiosa ma “andrà tutto bene”. L’aliante si schianta sugli alberi e prosegue la corsa sotto le chiome. Il pilota, ferito gravemente, sarà soccorso solo l’indomani.

E’ l’ultimo volo di scuola della giornata. L’istruttore, ricco di una solida esperienza di pilota militare ed istruttore, decide di atterrare con il Twin Astir in contropista e, con un rullaggio di precisione, di portare l’aliante all’hangar come fa d’abitudine da molto tempo. La punta dell’ala urta una luce della pista, l’aliante imbarda violentemente e si ferma. L’ala sinistra è distrutta, e l’aliante resta fermo per riparazioni molte settimane.

Pochi metri, pochi centimetri a volte bastano perché una volta non vada tutto bene. Gli anni passati in compagnia del rischio, giorno dopo giorno, tendono ad attenuare la percezione che abbiamo di esso. E’ inevitabile, ma è compito di ciascuno di noi il ridurre al minimo questa tendenza. Un dubbio, una situazione poco chiara possono significare un pericolo serio. Una azione immediata e decisa deve essere la sola risposta. Questo può semplicemente salvare la nostra vita ed il nostro club da un disastro.

La fascinazione dell’obiettivo: gli alpinisti dicono che “rinunciare prima di aver raggiunto la vetta è la cosa più difficile che esista”. Immaginare il nostro obiettivo prima che gli occhi lo vedano ha un effetto mistico su di noi. Ci attira; di più, ci può ipnotizzare. Non riusciamo più a vedere gli ostacoli sul cammino, e i rischi che si materializzano vengono ignorati, soppressi o sottovalutati. Il cammino verso la meta diventa una sorta di tunnel mentale dal quale è difficile uscire. In montagna, le condizioni possono degradarsi rapidamente, il vento, il gelo o la neve possono ben presto rendere un percorso impraticabile. Coloro che mancano la chance di tornare indietro finché ancora possono, rischiano di pagare questo errore con la loro stessa vita. Questa fascinazione della meta è ben conosciuta anche in campo aeronautico. Qui, la forza d’attrazione è spesso proporzionale a quella della motivazione che ci spinge verso l’obiettivo.

Questa motivazione può risultare dal desiderio di realizzare la “missione”, di non ritardare o cancellare un ultimo volo di istruzione o di iniziazione, di non perturbare lo svolgimento delle operazioni del club. Incoscientemente, però, essa può fare appello a un lato più emotivo del nostro carattere, e trovare la giustificazione in un problema personale o domestico. Non tornare a casa troppo tardi, non deludere l’allievo, la fidanzata o il passeggero.

Il 13 gennaio 1982, un Boeing 737 proveniente dal sole della Florida atterra a Washington DC. Le condizioni meteorologiche sono pessime, nevica in continuazione. Poco dopo l’atterraggio, l’aeroporto viene chiuso per sgomberare le piste. Il volo di ritorno di conseguenza viene di molto ritardato. Si imbarcano comunque i passeggeri, non si sa mai, il che crea ulteriore pressione sull’equipaggio. Durante l’imbarco, il comandante ordina il decongelamento delle ali. Passa comunque un’altra ora e mezza prima che si possa decollare. La registrazione delle conversazioni in cabina mostra che buona parte dei rischi impliciti nella situazione erano ben presenti all’equipaggio. Dimostra anche che tali rischi vengono sistematicamente minimizzati, fino al punto che i piloti si convincono che un secondo scongelamento dell’ala non sia necessario. Essi si trovano chiaramente nel tunnel di cui si è parlato prima, vedono i rischi ma li minimizzano o li ignorano.

Finalmente, con oltre due ore di ritardo, l’aereo riceve l’autorizzazione al decollo. La neve polverosa presente sulle ali non viene soffiata via dalla velocità, appesantisce l’aeroplano e sporca il profilo alare. Il decollo è faticosissimo, l’avvisatore di stallo suona quasi immediatamente. Dopo qualche secondo drammatico in cabina, il Boeing 737 urta il ponte della 14° strada e si schianta nel Potomac. 78 persone perdono la vita, 9 feriti vengono tratti in salvo.

Più vicino a noi. Dalla biga chiedono al trainatore se può fare un ultimo traino, si tratta di un volo di iniziazione. E’ una seccatura, il traino appena terminato doveva essere l’ultimo della giornata. Il sole sta tramontando, e restano poco più di 30 litri di benzina nei serbatoi. Fare rifornimento costerebbe almeno altri 15 minuti, e il volo d’iniziazione ne sarebbe fortemente compromesso. Ha già trainato con così poca benzina altre volte, anche se il regolamento interno del club proibisce di decollare con meno di 40 litri, e poi, un volo in più per il club…..vada per l’ultimo traino. Dopo il decollo, a meno di 100 metri di quota il motore si ferma. Il pilota sgancia, e tenta una virata di 180°. L’aeroplano stalla e si schianta al suolo. Aeromobile distrutto, pilota gravemente ferito. L’aliante riesce ad atterrare in contropista.

Nel primo caso, la risposta possibile è che l’equipaggio si è lasciato influenzare dal desiderio di non ritardare ulteriormente un volo già fortemente posticipato, e ha fissato la sua attenzione sull’obiettivo di realizzare quel volo per “rientrare alla base”, sottovalutando tragicamente i pericoli insiti in una situazione che per contro aveva ben sotto gli occhi.

Il caso del pilota trainatore si rifà a quello del volovelista che voleva ad ogni costo superare il passo per tornare al campo. Non deludere, non sovvertire la propria organizzazione o quella del club, e soprattutto “rientrare”, per evitare tutta una serie di fastidi.

La sindrome del “seguire il leader” : cosa si intende per essa ? Vogliamo parlare dell’ “aereo leader”, della fiducia cieca nella persona che ci precede o che è molto più esperta di noi. Non è molto differente dal comportamento di un animale nel branco. Preferiamo pensare che, in quanto esseri umani dotati di un’intelligenza superiore siamo immuni da ciò, ma non è così. Quand’è l’ultima volta che abbiamo viaggiato, magari nella nebbia, sull’autostrada ben al di sopra dei limiti in un flusso continuo di auto? Non ci rassicurava l’idea che, dal momento che tutti facevano così, non era poi troppo pericoloso?

Questa sensazione di sicurezza è però estremamente fallace. Basta che una macchina freni improvvisamente, e la carambola che ne segue ce ne darà la prova. Lasciare la valutazione del rischio a “chi passa per primo” è pericoloso, come mostrano gli esempi che seguono.

Il 2 agosto 1985, un Lockeed 1011 è in lungo finale a Dallas. Durante l’avvicinamento un piccolo cumulonembo si trova tra ‘ultimo radio marker e la testata pista. Davanti al L-1011, un Boeing 727 ed un Learjet attraversano il Cb e atterrano senza fare osservazioni. Il copilota annuncia di aver visto dei fulmini nella nube davanti, ma l’avvicinamento viene proseguito. Poco più tardi, un commento sulla velocità ed un forte rumore di pioggia si sentono nel registratore delle voci in cabina. Pochi secondi più tardi, un altro commento sulla velocità seguito dall’ordine di ridare motore. La manovra riesce parzialmente, ma l’aereo è ormai troppo basso. Urta un’automobile sull’autostrada, un edificio ed un serbatoio d’acqua prima di schiantarsi al suolo e prendere fuoco. L’inchiesta ha concluso che l’incidente è stato causato dalla decisione di proseguire l’avvicinamento attraversando il cumulonembo, il che ha portato l’aereo in un forte gradiente di vento a quota molto bassa.

L’equipaggio era perfettamente qualificato, il comandante era un uomo esperto e prudente, l’esecuzione delle manovre in cabina e l’attenzione alle procedure erano state impeccabili, le reazioni alla situazione difficile pronte e corrette. Un ottimo equipaggio. In altre parole, ciascuno di noi avrebbe potuto trovarsi seduto in cabina e non avrebbe potuto reagire meglio di quel comandante. Perché allora questo disastro si è potuto realizzare? Il rapporto della commissione d’inchiesta menziona un punto che può spiegare tutto.

Il Lockeed Tri-Star era uno degli aerei nella sequenza d’atterraggio. Gli altri aerei davanti a lui possono ben aver dato al comandante una falsa impressione di sicurezza, benché il copilota abbia notato i fulmini all’interno della nube davanti a loro.

Possiamo ritrovare gli effetti di questa sindrome anche nella pratica del nostro sport.

Durante un campionato regionale, un gruppo di quattro alianti tenta un rientro sull’aeroporto di partenza. Il cielo è velato, ed il rientro è di stretta misura. Malgrado il sorvolo in sequenza di diversi campi atterrabili, i piloti decidono di proseguire la planata. I primi tre alianti raggiungono l’aeroporto ed atterrano, il quarto urta una linea dell’alta tensione. Un morto, aliante distrutto.

La tendenza a seguire ciecamente chi si trova davanti è presente in ciascuno di noi. E’ un retaggio di un’era remota, ed è ben radicato in noi, la razza umana ne dipendeva all’inizio della sua evoluzione. Un comportamento sviluppato nel corso di milioni di anni ben difficilmente può essere soppresso in una generazione. La sola cosa possibile è di essere coscienti di questo aspetto del nostro carattere. Se riusciamo a fare ciò, avremo già dato un notevole contributo alla sicurezza. Potremo così riconoscere che questo istinto o comportamento ci rende incapaci di valutare correttamente una situazione a rischio.

In conclusione

Il rischio fa parte della vita, ci circonda continuamente. In quanto piloti, abbiamo generalmente un atteggiamento positivo nei confronti di esso, l’accettiamo e, fino ad un certo punto, ne traiamo un certo piacere. Il pilotaggio, però, richiede una disciplina ferrea, non c’è spazio per “giocare” con il pericolo.

Cerchiamo allora di sorvegliarci da soli. Siamo critici riguardo al nostro atteggiamento di fronte al rischio, e teniamo bene in mente che abbiamo bisogno di stare particolarmente in guardia se riconosciamo gli indizi di una delle situazioni seguenti :

- un lungo periodo senza incidenti

- la fascinazione di un obiettivo

- la sindrome del “seguire il leader”

Ogni volta che decolliamo, che ci piaccia o no, il rischio è nostro compagno di viaggio. Impariamo dunque a riconoscerlo, valutarlo e controllarlo, per la sicurezza di tutti.

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